cucina,ricette La Cucina Economica: La grande bellezza, la cucina romana

martedì 4 marzo 2014

La grande bellezza, la cucina romana


La grande bellezza, la cucina romana. Un grande popolo di militari e condottieri, abituati alle privazioni delle grandi campagne, a migliaia di chilometri da casa, allora quando

si viaggiava solamente a piedi e le strade si costruivano man mano, procedendo nella marcia. Ma anche un popolo colto, gaudente, di raffinata ricercatezza, i cittadini di Roma Imperiale hanno il merito di aver riportato in patria, come bottino di guerra, usi e consuetudini gastronomiche, veramente da tutto il mondo. Così la cucina di Roma è diventata multietnica, si è pian piano arricchita, di colori e sapori che non erano i nostri, affinando il gusto alle speziate cucine orientali, o alle nordiche più spartane. Troppo ricca è la storia, per pensare di poterla raccontare, e articolata, in una Roma  Repubblicana ed Imperiale dove, chi poteva permetterselo, mangiava bene: una colazione  sostanziosa, ientaculum, che veniva consumata intorno alla terza o quarta ora (ovvero tra le 8 e le 9 del mattino) a base di focacce, pane condito con sale e vino, miele e latte, accompagnati da frutta secca, formaggio ed anche carne, oppure avanzi del giorno precedente. Il secondo pasto, prandium, si svolgeva tra la sesta e la settima ora, in pratica poco prima del mezzogiorno, ed era abbastanza frugale: poteva variare da una ciotola di legumi, olive, fichi, alici in salamoia, fino a formaggi di pecora o di capra, a spiedini di carne o pesce alla griglia, terminando con un bicchiere di vino caldo o con una bevanda, piperatum o conditum,  realizzata mescolando pepe ed altri estratti aromatici a miele, vino ed acqua calda. La cena era il pasto principale e più importante, si svolgeva nell'undicesima ora (ovvero intorno alle 4 del pomeriggio),  poteva durare anche sei o sette ore, lunghe libagioni, sdraiati, con il gomito sinistro poggiato sul cuscino, il piatto tenuto con la mano sinistra mentre con la destra si consumava il cibo. Si iniziava con uova sode, olive verdi e nere, verdure varie, lumache, il tutto annaffiato dal vino al miele il mulsum. Le portate principali consistevano in carne o pesce: aragoste, ostriche, murene, pollo, lepre, vitello o maiale. Il consumo di insaccati era enorme ed apprezzata era la carne di volatili, da cortile e da voliera, prodotta nelle ville rustiche o cacciata, insieme a selvaggina più grande, come cinghiali, daini, cervi e caprioli. Ma anche strane prelibatezze come i piedi di cammello o il fenicottero. E poi il pane, a base di farro prima e di grano poi. Il panis candidus, cioè il pane bianco, il più pregiato e quindi appannaggio delle classi agiate, il panis secundiarus, bianco ma meno raffinato, ed il panis militaris o plebeius, nero e compatto, e, come dice il termine stesso, riservato alle classi meno abbienti, come i soldati o la plebe. La cena terminava con le secundae mensae dove venivano serviti dolci e frutta: i dolci erano preparati essenzialmente con miele o vino, e i frutti di stagione erano mele, uva o fichi, e più tardi anche albicocche e pesche, persiche, portate dalla lontana Persia. Molto apprezzato l'olio d'oliva, importato dalla Baetica l'odierna Andalusia o dall'Africa settentrionale, invasato in anfore da trasporto e che, in circa tre secoli, hanno creato il monte Testaccio, detto appunto "Monte dei cocci". Ma come ci è possibile conoscere tante cose e così dettagliate sulle abitudini culinarie dell'antica Roma? E' perchè tutti i 'grandi'  dissertavano di cucina, da Cicerone a Giovenale, da Ovidio a Virgilio, ed in modo particolare dal "De agri cultura" di Catone, dal "De Rustica" di Varrone e dalla più celebre opera culinaria della Roma Antica, il "De re coquinaria", l'importante ricettario di Marco Gavio Apicio. 



Ma è solo nel medioevo che la cucina romana prende gli aspetti di quella odierna, sulla base delle ricchezze tramandate, la cucina si modifica, comincia a respirare, ossigenandosi e maturando attraverso nuovi contatti, non più di predazione ma di scambio culturale. La si può conoscere ed apprezzare in molti testi, il "De arte coquinaria", scritto  da Maestro Martino, il primo grande chef della storia della gastronomia, che maturò il suo talento e la sua arte proprio a Roma, al servizio del Cardinale Trevisan, lì incontrò Bartolomeo Scappi, "il Platina", che ne apprezza a tal punto l'opera da interpretarla e tradurla. Tra le tante ricette ecco che ne ritroviamo alcune che ancor oggi potremmo ordinare nelle trattorie di Trastevere:

per li maccaroni romaneschi piglia de la farina che sia bella, et distemperala et fa' la pasta un pocho più grossa che quella de le lasangne, et avoltola intorno ad un bastone. Et dapoi caccia fore il bastone, et tagliala la pasta larga un dito piccolo, et resterà in modo de bindelle, overo stringhe. Et mitteli accocere in brodo grasso, overo in acqua secundo il tempo. Et vole bollire quando gli metti accocere. Et se tu gli coci in acqua mettevi del butiro frescho, et pocho sale. Et como sonno cotti mittili in piattelli con bono caso, et butiro, et spetie dolci

oppure

per li cavoli a la romanesca rompi li cavoli torzoti con le mani secundo l'usanza, et mittigli in l'acqua quando bolle. Et quando seranno circha mezo cotti butta via tutta quella acqua et habi di bon lardo battuto in bona et competente quantità, et mettilo ne li ditti cavoli così sciutti, voltandoli ben col cocchiaro. Poi pigliarai di bono brodo grasso, et in quello li metterai al focho a bollire per piccholo spatio di tempo

e anche, direttamente dall' 'Opera' di Bartolomeo Scappi:

per far polpettoni alla romanesca di lombolo di bove o di vaccina piglisi la parte più magra del lombolo, priva d'ossa e di pelle e di nervi, e taglisi per traverso in pezzi grossi di sei once l'uno, spolverizzandoli di sal trito e fiori di finocchio, over pitartamo, pesto con spezierie communi, e ponendovi quattro lardelli di presciutto vergellato per ciascun pezzo; e faccianosi stare in soppressa con la detta composizione et un poco di aceto rosato e sapa per tre ore, e da poi spedinosi con una fetta di lardo tra l'uno e l'altro pezzo, con foglie di salvia, over di lauro, facendoli cuocere con fuoco temperato. Cotti che saranno, vogliono esser serviti così caldi con un sapore sopra, fatto con quel liquore che casca da essi e mescolato con quella composizione che fecero quando furono in soppressa, il qual sapore vuole avere un poco di corpo e darsegli il colore di zafferano. In questo modo si possono accomodare i lombi delle vitelle camporecce e mongane e d'ogni altro animal quadrupede.

E via al Settecento con Francesco Leonardi e il suo "Apicio moderno", un cuoco nato a Roma ma specializzatosi tra i potenti del mondo, dal maresciallo Richelieu alle corti di Polonia, Germania e Inghilterra: si vantò di essere l'inventore della classica ricetta della pasta con il pomodoro, ottenuta con pomodori privi di semi e fatti bollire aggiungendo aglio, cipolla, basilico e sedano. In questo libro ci racconta la ricetta della trippa di manzo alla romana:

quando la trippa di manzo sarà ben pulita e lavata, fatela cuocere con acqua, sale, una cipolla con tre garofani, un mazzetto di petrosemolo con sellero, carota, due spicchi d'aglio, mezza foglia d'alloro; fatela bollire in una marmitta a picciolo fuoco sei o sette ore, che sia ben schiumata; quando sarà cotta, tagliatela in quadretti, mettetela in una cazzarola con un pezzo di butirro, sale e pepe schiacciato, passate sopra il fuoco, aggiungeteci un poco di spagnuola e culì. Abbiate un piatto con un picciolo bordo di pane o di pasta, fate un suolo di parmigiano grattato e un suolo di trippa, e così continuate fino a tanto che il piatto sia sufficientemente pieno, terminando col parmigiano grattato, nel quale avrete cura di mescolare un poco di menta trita; ponete alla bocca del forno o sulla cenere calda acciò prenda sapore, e servite ben calda.

Poi nell'Ottocento è il milanese Giovan Felice Luraschi nell'opera "Novo cuoco milanese economico", un ricettario, un vero e proprio manuale rivolto ai cuochi, ai principianti ed ai particolari,  a raccontarci la ricetta romana della zuppa di broccoli

fate imbianchire nell'acqua salata i fiori del broccolo con una mezza quarta di cicorino novello tagliato a piccoli pezzi, fateli confinare in buon coulì, bagnate il pane, tagliato a dadi e passato al butirro, con buon sugo e versate sopra il composto.

Questo è il lungo percorso che ci ha portato all'odierna cucina romana, che respira a pieni polmoni dalla tradizione, ma è esuberante e ricca di fantasia. Allora il cosiddetto quinto quarto, l'eccedenza della bestia vaccina od ovina dopo che le parti pregiate, ovvero i due quarti anteriori e posteriori, sono stati vendute ai ricchi signori, diventa la base per piatti importanti. Parliamo di trippa, rognoni, cuore, fegato, milza, animelle e schienali, cervello, lingua e coda, mentre dalla bestia ovina si prende la coratella, le interiora (fegato, polmoni, cuore). Grandi piatti come la coda alla vaccinara, i saltimbocca alla romana, lo stufatino alla romana. E poi il garofolato di manzo, un arrosto di girello con pezzetti di lardo, chiodi di garofano (dai quali deriva il nome) ed aglio a fettine, cotto a fuoco lento per un paio d'ore con cipolla, olio e burro in un tegame, con sedano e pomodoro. Il sugo del garofolato veniva usato anche per condire la trippa alla trasteverina, che veniva poi passata in forno e spolverata infine con pecorino grattugiato ed un battuto di menta. Oltre alla trippa, nelle osterie romane si cucina la milza in umido, con salvia, aglio, aceto, acciuga e pepe, il rognone al pomodoro, cotto con un sugo di cipolla, pomodori, prezzemolo, vino bianco e pepe. Non dimentichiamoci del pollo alla romana che viene prima rosolato in un soffritto di burro, prosciutto tagliato a dadini, aglio e maggiorana tritata, poi spruzzato con il vino bianco e poi cotto con pomodori e peperoni. 


E poi le verdure fresche che arrivano ogni giorno dall'Agro, le puntarelle che si fanno con l'acciuga e i pomodori che ripieni di riso e un battuto di menta, basilico, aglio, acciughe vengono cotti al forno. Il carciofo ingrediente base di molte ricette giudie delle osterie del ghetto si romanizza e viene cotto ritto e capovolto  con un ripieno di mentuccia fresca, aglio, sale, pepe e olio oppure tagliati a spicchi e fritti  con la coratella e le animelle. Piselli e  fave, insieme con il guanciale, la misticanza, tipica romana, un misto di borragine, caccialepre, cicorietta, lattughella, pimpinella, porcacchia, radicette, raponzoli, rughetta, che solo mani esperte possono raccogliere.

Il semolino per gli gnocchi alla romana conditi con burro e parmigiano e cotti in forno; i bucatini cacio e pepe e gli spaghetti alla carrettiera, con un sugo di funghi secchi, pomodoro, aglio, prezzemolo e tonno. Le lumache "di S.Giovanni", spurgate ben bene, si tolgono dal guscio, si lessano, si mettono poi in un tegame con un sughetto di pomodoro su un battuto di aglio, acciughe e peperoncino, e un mazzetto di menta, a cuocere per almeno un'ora.  

Focacce e pizze dolci, il budino di ricotta, le fave alla romana, dolce tipico del giorno dei morti, così remoto nel tempo da essere citato nei testi più antichi. Ma si trovano anche i tozzetti, il pangiallo, i mostaccioli, con farina, zucchero, fichi secchi, canditi e uva passa; sono un'eredità romana, "mustaceum", che sicuramente arrivava dal lontano oriente. 

E' una cucina, quella laziale, dove la ricercatezza delle corti rinascimentali, lascia il posto alla sostanza, la sua vera ricchezza è la multi etnicità, che la rende unica, ricca e varia. Dalle campagne della Ciociaria approdano nuovi piatti come, ad esempio, la provatura fritta. E' una sorta di mozzarella, il cui nome deriva dal campione di assaggio del cacio  per controllarne la filatura della pasta: il "campione" grosso come un pugno ha le dimensioni pressapoco della mozzarella, è servito negli antipasti romani assieme alle frittate con la ricotta, insaporite da qualche erba aromatica, come la frittata burina che viene fatta con cuori di lattuga mescolati alle uova assieme a pezzetti di formaggio e che deve il suo nome ai contadini romagnoli che fino a tutto l'Ottocento venivano a lavorare la terra nell'agro romano, chiamati appunto 'burini'. Sempre dalla Ciociaria arrivano il pancotto, minestra fatta con pane raffermo presente in tutta la cucina contadina del centro-sud con molte varianti, e poi la zuppa di fagioli e cipolle e  tutti i piatti a base di agnello. Non tanto l'abbacchio alla scottadito quanto i piatti più poveri come la coratella di abbacchio, un misto di rognone, fegato e polmone, generalmente cucinata in padella con i carciofi oppure con la cipolla, le animelle al prosciutto, la pajata, in pratica le budella degli animali da latte, soprattutto del vitello, cucinata al sugo per condire i rigatoni, oppure alla griglia, tutti piatti che usano le parti di recupero. L'agnello brodettato, cotto in tegame con prosciutto crudo, erbe aromatiche e vino bianco e arricchito da una salsa con tuorli d'uovo, prezzemolo, maggiorana e succo di limone; quello alla cacciatora che prevede le acciughe ma non il pomodoro. 

Dalla provincia di Rieti, che risente della vicinanza con l'Abruzzo, arrivano gli stracci di Antrodoco,  frittatine di uova, latte e farina, riempite di ragù, spolverate di formaggio grattugiato, ricoperte con altro ragù e fatte gratinare in forno. Da Amatrice, i tipici  ben noti spaghetti o bucatini all'amatriciana, e la famosa mortadella di Campotosto, un salame crudo di carne di maiale ripetutamente passato alla macchina sino a ricavarne una pasta molto fine e che, a differenza della mortadella tradizionale, non presenta lardelli sparsi ma uno solo, bianco e piuttosto grosso, che la attraversa per la lunghezza. Dalla vicina Umbria alcuni piatti sono storicamente entrati nella cucina laziale, primo fra tutti gli spaghetti alla carbonara importati nel Lazio dai carbonari: un piatto sostanzioso che prevede un soffritto fatto con il guanciale di maiale tagliato a dadini e cotto in padella con olio ed aglio; a parte si prepara una crema di uova, parmigiano e pepe, nella quale saranno versati gli spaghetti cotti al dente che saranno poi ricoperti con altro parmigiano e il sugo del guanciale. Gli spaghetti alla gricia, conditi con un preparato di guanciale e peperoncino e spolverati con abbondante pecorino grattugiato.

Non tutto ma di tutto. Consigliato da La cucina economica

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