La grande bellezza, la cucina romana. Un grande popolo di militari e condottieri, abituati alle privazioni delle grandi campagne, a migliaia di chilometri da casa, allora quando
si viaggiava solamente a piedi e le strade si costruivano man mano, procedendo nella marcia. Ma anche un popolo colto, gaudente, di raffinata ricercatezza, i cittadini di Roma Imperiale hanno il merito di aver riportato in patria, come bottino di guerra, usi e consuetudini gastronomiche, veramente da tutto il mondo. Così la cucina di Roma è diventata multietnica, si è pian piano arricchita, di colori e sapori che non erano i nostri, affinando il gusto alle speziate cucine orientali, o alle nordiche più spartane. Troppo ricca è la storia, per pensare di poterla raccontare, e articolata, in una Roma Repubblicana ed Imperiale dove, chi poteva permetterselo, mangiava bene: una
colazione sostanziosa, ientaculum, che veniva consumata
intorno alla terza o quarta ora (ovvero tra le 8 e le 9 del mattino) a base di
focacce, pane condito con sale e vino, miele e latte, accompagnati da frutta
secca, formaggio ed anche carne, oppure avanzi del giorno precedente. Il
secondo pasto, prandium, si svolgeva tra la sesta e la settima ora,
in pratica poco prima del mezzogiorno, ed era abbastanza frugale: poteva
variare da una ciotola di legumi, olive, fichi, alici in salamoia, fino a
formaggi di pecora o di capra, a spiedini di carne o pesce alla griglia, terminando con un bicchiere di vino caldo o con
una bevanda, piperatum o conditum, realizzata mescolando
pepe ed altri estratti aromatici a miele, vino ed acqua calda. La cena era il pasto principale e più importante, si svolgeva nell'undicesima ora (ovvero
intorno alle 4 del pomeriggio), poteva durare anche sei o sette ore, lunghe libagioni, sdraiati, con il gomito sinistro poggiato sul
cuscino, il piatto tenuto con la mano sinistra mentre con la destra si
consumava il cibo. Si iniziava con uova sode, olive verdi e nere,
verdure varie, lumache, il tutto annaffiato dal vino al miele il mulsum. Le portate principali consistevano in carne o pesce: aragoste,
ostriche, murene, pollo, lepre, vitello o maiale. Il consumo di insaccati era
enorme ed apprezzata era la carne di volatili, da cortile e da voliera,
prodotta nelle ville rustiche o cacciata, insieme a selvaggina più grande, come
cinghiali, daini, cervi e caprioli. Ma anche strane prelibatezze come i piedi di cammello o il fenicottero. E poi il pane, a base di farro prima e di grano poi. Il panis candidus, cioè il
pane bianco, il più pregiato e quindi appannaggio delle classi agiate, il panis secundiarus, bianco ma meno raffinato, ed il panis
militaris o plebeius, nero e compatto, e, come dice il
termine stesso, riservato alle classi meno abbienti, come i soldati o la plebe.
La cena terminava con le secundae mensae dove venivano serviti
dolci e frutta: i dolci erano preparati essenzialmente con miele o vino, e i frutti di stagione erano mele, uva o fichi, e più tardi anche albicocche e pesche, persiche, portate dalla lontana Persia. Molto apprezzato l'olio d'oliva, importato dalla Baetica l'odierna Andalusia o dall'Africa settentrionale, invasato in anfore da trasporto e che, in circa tre secoli, hanno creato il monte Testaccio, detto appunto "Monte dei
cocci". Ma come ci è possibile conoscere tante cose e così dettagliate sulle abitudini culinarie dell'antica Roma? E' perchè tutti i 'grandi' dissertavano di cucina, da Cicerone a Giovenale, da Ovidio a Virgilio, ed in modo particolare dal "De agri cultura" di Catone, dal "De
Rustica" di Varrone e dalla più celebre opera culinaria della Roma Antica,
il "De re coquinaria", l'importante ricettario di Marco Gavio Apicio.
Ma è solo nel medioevo che la cucina romana prende gli aspetti di quella odierna, sulla base delle ricchezze tramandate, la cucina si modifica, comincia a respirare, ossigenandosi e maturando attraverso nuovi contatti, non più di predazione ma di scambio culturale. La si può conoscere ed apprezzare in molti testi, il "De arte
coquinaria", scritto da Maestro Martino, il primo grande chef della storia della
gastronomia, che maturò il suo talento e la sua arte proprio a Roma, al servizio del
Cardinale Trevisan, lì incontrò Bartolomeo Scappi, "il Platina", che ne apprezza a tal punto l'opera da interpretarla e tradurla. Tra le tante
ricette ecco che ne ritroviamo alcune che ancor oggi potremmo ordinare nelle trattorie di Trastevere:
per li maccaroni
romaneschi piglia
de la farina che sia bella, et distemperala et fa' la pasta un pocho più grossa
che quella de le lasangne, et avoltola intorno ad un bastone. Et dapoi caccia
fore il bastone, et tagliala la pasta larga un dito piccolo, et resterà in modo
de bindelle, overo stringhe. Et mitteli accocere in brodo grasso, overo in
acqua secundo il tempo. Et vole bollire quando gli metti accocere. Et se tu gli
coci in acqua mettevi del butiro frescho, et pocho sale. Et como sonno cotti
mittili in piattelli con bono caso, et butiro, et spetie dolci
oppure
per li cavoli
a la romanesca rompi
li cavoli torzoti con le mani secundo l'usanza, et mittigli in l'acqua quando
bolle. Et quando seranno circha mezo cotti butta via tutta quella acqua et habi
di bon lardo battuto in bona et competente quantità, et mettilo ne li ditti
cavoli così sciutti, voltandoli ben col cocchiaro. Poi pigliarai di bono brodo
grasso, et in quello li metterai al focho a bollire per piccholo spatio di
tempo
e anche, direttamente dall' 'Opera' di Bartolomeo Scappi:
per
far polpettoni alla romanesca di lombolo di bove o di vaccina piglisi
la parte più magra del lombolo, priva d'ossa e di pelle e di nervi, e taglisi
per traverso in pezzi grossi di sei once l'uno, spolverizzandoli di sal trito e
fiori di finocchio, over pitartamo, pesto con spezierie communi, e ponendovi
quattro lardelli di presciutto vergellato per ciascun pezzo; e faccianosi stare
in soppressa con la detta composizione et un poco di aceto rosato e sapa per
tre ore, e da poi spedinosi con una fetta di lardo tra l'uno e l'altro pezzo,
con foglie di salvia, over di lauro, facendoli cuocere con fuoco temperato.
Cotti che saranno, vogliono esser serviti così caldi con un sapore sopra, fatto
con quel liquore che casca da essi e mescolato con quella composizione che
fecero quando furono in soppressa, il qual sapore vuole avere un poco di corpo
e darsegli il colore di zafferano. In questo modo si possono accomodare i lombi
delle vitelle camporecce e mongane e d'ogni altro animal quadrupede.
E via al Settecento con Francesco Leonardi e il suo "Apicio
moderno", un cuoco nato a Roma ma specializzatosi tra i potenti del mondo,
dal maresciallo Richelieu alle corti di Polonia, Germania e Inghilterra: si
vantò di essere l'inventore della classica ricetta della pasta con il pomodoro,
ottenuta con pomodori privi di semi e fatti bollire aggiungendo aglio, cipolla,
basilico e sedano. In questo libro ci racconta la ricetta della trippa
di manzo alla romana:
quando
la trippa di manzo sarà ben pulita e lavata, fatela cuocere con acqua, sale,
una cipolla con tre garofani, un mazzetto di petrosemolo con sellero, carota,
due spicchi d'aglio, mezza foglia d'alloro; fatela bollire in una marmitta a
picciolo fuoco sei o sette ore, che sia ben schiumata; quando sarà cotta,
tagliatela in quadretti, mettetela in una cazzarola con un pezzo di butirro,
sale e pepe schiacciato, passate sopra il fuoco, aggiungeteci un poco di
spagnuola e culì. Abbiate un piatto con un picciolo bordo di pane o di pasta,
fate un suolo di parmigiano grattato e un suolo di trippa, e così continuate
fino a tanto che il piatto sia sufficientemente pieno, terminando col
parmigiano grattato, nel quale avrete cura di mescolare un poco di menta trita;
ponete alla bocca del forno o sulla cenere calda acciò prenda sapore, e servite
ben calda.
Poi nell'Ottocento
è il milanese Giovan Felice Luraschi nell'opera "Novo cuoco milanese
economico", un ricettario, un vero e proprio manuale rivolto ai cuochi, ai
principianti ed ai particolari, a raccontarci la ricetta
romana della zuppa di broccoli
fate
imbianchire nell'acqua salata i fiori del broccolo con una mezza quarta di
cicorino novello tagliato a piccoli pezzi, fateli confinare in buon coulì,
bagnate il pane, tagliato a dadi e passato al butirro, con buon sugo e versate
sopra il composto.
Questo è il lungo percorso che ci ha portato all'odierna cucina romana, che respira a pieni polmoni dalla tradizione, ma è esuberante e ricca di fantasia. Allora il cosiddetto quinto quarto, l'eccedenza della bestia vaccina od ovina dopo che le parti pregiate,
ovvero i due quarti anteriori e posteriori, sono stati vendute ai ricchi
signori, diventa la base per piatti importanti. Parliamo di trippa, rognoni, cuore, fegato, milza, animelle e
schienali, cervello, lingua e coda, mentre dalla bestia ovina si prende la
coratella, le interiora (fegato, polmoni, cuore). Grandi piatti come la coda alla vaccinara, i saltimbocca alla romana, lo stufatino alla romana.
E poi il garofolato di manzo, un arrosto di girello con
pezzetti di lardo, chiodi di garofano (dai quali deriva il nome) ed aglio a
fettine, cotto a fuoco lento per un paio d'ore con cipolla, olio e burro in un
tegame, con sedano e pomodoro. Il sugo del garofolato veniva usato anche per condire
la trippa alla trasteverina, che veniva poi passata in forno e spolverata infine con
pecorino grattugiato ed un battuto di menta. Oltre alla trippa, nelle osterie romane si cucina la milza in umido, con
salvia, aglio, aceto, acciuga e pepe, il rognone al pomodoro, cotto con un
sugo di cipolla, pomodori, prezzemolo, vino bianco e pepe. Non dimentichiamoci del pollo alla romana che viene prima rosolato in un soffritto di
burro, prosciutto tagliato a dadini, aglio e maggiorana tritata, poi spruzzato
con il vino bianco e poi cotto con pomodori e peperoni.
E poi le verdure fresche che arrivano ogni giorno dall'Agro, le puntarelle che si fanno con l'acciuga e i pomodori
che ripieni di riso e un battuto di menta, basilico, aglio, acciughe vengono cotti al forno. Il carciofo ingrediente base di molte ricette giudie delle osterie del ghetto si romanizza e viene cotto ritto e capovolto con un ripieno di mentuccia fresca, aglio, sale, pepe e olio oppure tagliati a spicchi e fritti con la coratella e le animelle. Piselli e fave, insieme con il guanciale, la misticanza, tipica romana, un misto di borragine, caccialepre, cicorietta, lattughella, pimpinella, porcacchia, radicette, raponzoli, rughetta, che solo mani esperte possono raccogliere.
Il semolino per gli gnocchi alla romana conditi con burro
e parmigiano e cotti in forno; i bucatini cacio e pepe e gli spaghetti alla
carrettiera, con un sugo di funghi secchi, pomodoro, aglio, prezzemolo e
tonno. Le lumache "di S.Giovanni", spurgate ben bene, si tolgono dal guscio, si lessano, si mettono poi in un tegame con un sughetto di
pomodoro su un battuto di aglio, acciughe e peperoncino, e un mazzetto
di menta, a cuocere per almeno un'ora.
Focacce
e pizze dolci, il budino di ricotta, le fave
alla romana, dolce tipico del giorno dei morti, così remoto nel tempo da essere
citato nei testi più antichi. Ma si trovano anche i tozzetti, il pangiallo, i
mostaccioli, con farina, zucchero, fichi secchi, canditi
e uva passa; sono un'eredità romana, "mustaceum", che sicuramente arrivava dal lontano oriente.
E' una cucina, quella laziale, dove la ricercatezza delle corti rinascimentali, lascia il posto alla sostanza, la sua vera ricchezza è la multi etnicità, che la rende unica, ricca e varia. Dalle campagne della Ciociaria approdano nuovi piatti come, ad esempio, la provatura fritta. E' una sorta di
mozzarella, il cui nome deriva dal campione di assaggio del cacio per controllarne la filatura della pasta: il "campione" grosso come un pugno ha le dimensioni pressapoco della mozzarella, è servito negli antipasti romani assieme alle frittate con la ricotta,
insaporite da qualche erba aromatica, come la frittata burina che viene fatta con cuori di lattuga mescolati alle uova
assieme a pezzetti di formaggio e che deve il suo nome ai contadini romagnoli che fino a tutto l'Ottocento venivano a
lavorare la terra nell'agro romano, chiamati appunto 'burini'. Sempre dalla Ciociaria arrivano il pancotto, minestra fatta con pane raffermo
presente in tutta la cucina contadina del centro-sud con molte
varianti, e poi la zuppa di fagioli e cipolle e tutti i piatti a base di agnello. Non tanto l'abbacchio alla scottadito quanto i piatti più poveri come la coratella di abbacchio,
un misto di rognone, fegato e polmone, generalmente cucinata in padella con i
carciofi oppure con la cipolla, le animelle al prosciutto, la pajata, in
pratica le budella degli animali da latte, soprattutto del vitello, cucinata al
sugo per condire i rigatoni, oppure alla griglia, tutti piatti che usano le
parti di recupero. L'agnello brodettato, cotto in tegame con prosciutto crudo,
erbe aromatiche e vino bianco e arricchito da una salsa con tuorli d'uovo,
prezzemolo, maggiorana e succo di limone; quello alla cacciatora che prevede le
acciughe ma non il pomodoro.
Dalla provincia di Rieti, che risente della vicinanza con
l'Abruzzo, arrivano gli stracci di
Antrodoco, frittatine
di uova, latte e farina, riempite di ragù, spolverate di formaggio
grattugiato, ricoperte con altro ragù e fatte gratinare in forno. Da Amatrice, i tipici ben noti spaghetti o bucatini
all'amatriciana, e la famosa mortadella di Campotosto, un salame crudo di
carne di maiale ripetutamente passato alla macchina sino a ricavarne una pasta
molto fine e che, a differenza della mortadella tradizionale, non presenta
lardelli sparsi ma uno solo, bianco e piuttosto grosso, che la attraversa per
la lunghezza. Dalla vicina Umbria alcuni piatti sono storicamente entrati
nella cucina laziale, primo fra tutti gli spaghetti alla carbonara importati
nel Lazio dai carbonari: un piatto sostanzioso che prevede un soffritto fatto
con il guanciale di maiale tagliato a dadini e cotto in padella con olio ed
aglio; a parte si prepara una crema di uova, parmigiano e pepe, nella quale
saranno versati gli spaghetti cotti al dente che saranno poi ricoperti con
altro parmigiano e il sugo del guanciale. Gli spaghetti
alla gricia, conditi con un preparato di guanciale e peperoncino e spolverati
con abbondante pecorino grattugiato.
Non tutto ma di tutto. Consigliato da La cucina economica
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