Il mio
nome è Yaya, è il nome che ho avuto da mia nonna, la madre di mia madre.
Siamo dei romaní, o zingari, gitani,
gipsies , tsiganes o manouches.
E’ questa in breve è la sua storia e un poco
anche la mia e forse anche quella dei miei figli futuri.
Yaya era una gitana del Rajasthan,
parlava un antico dialetto indiano, era una
ballerina del deserto, una maga, strega e una cuoca eccelsa, ma soprattutto era
una donna, di quelle che attraversano la vita, da sole, anche se hanno una
famiglia e dei figli. Ha avuto tre mariti e molti amanti, ma una sola figlia e
una sola nipote, io. Tutto quello che so me lo ha insegnato lei, direttamente o
indirettamente, perché era sua abitudine parlare e parlare, raccontare anche
quando sembrava che nessuno l’ascoltasse, e invece a distanza di anni, tutti i
suoi racconti riaffiorano chiari come la scrittura su un foglio bianco.
Nella carrozza in cui viaggiavamo,
ed abitavamo, c’era un unico grande letto, in un’alcova di legno scolpito e dipinto,
ci dormivamo in tre, lei, io e mia madre per il tempo che ha vissuto con noi. In
un angolo, era fissato alla parete un armadio con una grande serratura di ferro
scuro, conteneva tutti i suoi tesori più preziosi, le erbe e le spezie che
raccoglieva nei viaggi o che arrivavano con nomadi a cavallo, dal lontano
oriente. Quell’armadio mi attirava come un barattolo di marmellata, ed ero
sempre lì, quando lo apriva, un po’ per la curiosità del proibito ma anche
perché l’intenso profumo di spezie e droghe che ne usciva, mi stordiva e, alla
notte mi faceva fare sogni incredibili.
Ogni giorno, fuori dal carrozzone
si formava una lunga fila di gitane, in attesa, negli abiti colorati,
chiacchieravano e ridevano allegre, aspettando il loro turno. Quella con i
dolori alle gambe, quella tradita dal marito, quella invece che non poteva
avere figli, ognuna con un problema più o meno grande, speranzosa, attendeva.
Veniva spesso una donna
bellissima, gli anni della giovinezza erano già trascorsi, ma continuava a
rincorrerli, ballando tutta la notte con giovani tzigani, sempre più
preoccupata per la vecchiaia imminente. Faceva lunghe sedute nel carrozzone, e
molte volte restavo nascosta, sotto al letto, ascoltando i loro discorsi fino a
che non mi addormentavo. Per lei Yaya preparava pozioni col suo ingrediente
preferito, quello che non mancava mai nel suo stipo, quello con cui colorava
tutti i suoi abiti, con cui tatuava le sue belle mani, quello che teneva
lontani gli spiriti della notte, la polvere di chuanhuangjiang, o curcuma.
Nella sua tribù era considerata un
simbolo di prosperità e un mezzo di purificazione per tutto il corpo. Una
potente cura e un prezioso antidoto per molte malattie. Ma anche un rimedio
contro i danni della vecchiaia e delle rughe.
Allora preparava un prezioso
elisir, per la donna disperata, seguendo le ricette che si erano tramandate da
generazione in generazione secondo la tradizione galenica.
In mezzo litro di olio di sesamo scioglieva 3 cucchiai di curcuma in
polvere. Lo lasciava in una ampolla chiusa ermeticamente, nel buio del suo
stipo, agitandolo ogni giorno per una settimana. L’ottavo giorno non lo agitava,
e travasava l’olio in una bottiglia di
vetro scuro avendo cura di non smuovere il fondo. Questo olio magico…era un
toccasana per le rughe del viso e del corpo.
Yaya non chiedeva compensi, ma
alla fine della giornata fuori dal carrozzone rimanevano ceste piene di ogni
segno di gratitudine. Dai semplici fiori di campo, ai frutti raccolti, tordi,
conigli e galline. Le galline e polletti venivano accettati solo se di
provenienza furtiva, sottratti da qualche pollaio mal sorvegliato.
A quel punto la nonna si
trasfigurava ed iniziava il suo sabba in cucina, preparava piatti profumati di
spezie, come le notti d’oriente. Dolci fragranti coperti col miele raccolto nei
boschi e, soprattutto, il suo famoso pollo agli aromi di curcuma e zenzero.
Prendeva i polli e dopo averli sbollentati, li spennava perfettamente,
li tagliava a grandi pezzi, conservando a parte le preziose interiora. Nel suo
grande pentolone di ferro scuro, scaldava l’olio, e faceva ben rosolare i
polli, con tante cipolle, quelle che raccoglieva al mattino, ancora bagnate con
la rugiada della notte. Pestava l’aglio e lo zenzero, aspettava che la cipolla
fosse trasparente poi li aggiungeva con sale, pepe e timo selvatico, i pomodori
maturi e le interiora tagliate a piccoli pezzi. Solo allora compariva
l’ingrediente segreto. Veloce e furtiva, spargeva la polvere gialla, la
preziosa curcuma indiana. Aggiungeva l’acqua di una brocca e lasciava cuocere
lentamente, finchè le carni non si sfaldavano nel sugo denso. Si mangiava quel
pollo gustosamente con le mani, aiutandosi con un riso bianco e colloso che non
mancava mai alla nostra tavola.
Ballava tra le pentole una danza
tribale e al calar della sera i profumi della cucina erano un richiamo
irresistibile, da ogni direzione arrivavano, amici e stranieri per far baldoria
in compagnia, si mangiava e si beveva il sidro da bottiglie di coccio, si
mangiava e si rideva, qualcuno si alzava e cominciava a suonare strumenti che
avevano più di cento anni, si mangiava e si cantava e ballava finchè le forze
cominciavano a mancare.
E solo allora Yaya, per far
rinascere la festa, faceva girare una bevanda forte e scura come la notte,
greve di spezie. Allora, ne conservava la ricetta gelosamente, ma ora è mia e
la divulgo con gioia.
La polvere scura arrivava dall’Arabia, in piccoli grani che poi
venivano pestati a lungo assieme ai semi del cardamomo. Si faceva bollire
l’acqua con questa polvere a larghe dosi, oltre a miele ed un pizzico di zafferano
che dava i riflessi dell’oro. Lo serviva da un bricco alto, col collo lungo, in
piccole tazze di porcellana finissima, decorate in blu, con fiori e dragoni
cinesi. Il qahwa si beveva lentamente
fino a vedere sul fondo il piccolo seme, il cardamomo, che dà energia e forza.
Lo si masticava a lungo, lentamente, col timore di inghiottirlo e per molto
tempo rilasciava un pungente aroma, qualcuno si risvegliava il giorno seguente
ancora col seme sotto la lingua. Le bucce si sputavano a terra e pestandole nella danza ancora emanavano il
loro forte aroma.
Quella bevanda potente, allargava
i cuori, e dava forza alle gambe, e allora si ricominciava a mangiare, suonare,
bere e ballare, ed amoreggiare fino all’alba.
Allo spuntare del sole, Yaya, mai
stanca, guidava il carrozzone, mentre noi si dormiva nel letto di piume, per svegliarci
altrove in posti sempre nuovi e diversi.
Spero che anche la vita dei miei
figli e dei figli dei miei figli possa essere altrettanto magica.
La Cucina Economica Stories, ricette vere in racconti di fantasia
Che post meraviglioso! Mi sembrava di leggere un libro pieno di magia e di sapori.
RispondiEliminaComplimenti!!!
Lara
Grazie Lara ti aspetto con altre storie e ricette. Un abbraccio
RispondiEliminaAlessandra